Mostro con l’ali nere,
col crin di serpi e con le man di gelo,
uscito dall’inferno
ottenebrando il bel splendor del cielo.
Sovra di me volò,
l’infauste labbra aprì,
la voce che n’uscì
trafiggendom’il cor s’articolò.
Disse: «a che più languir, misero amante?
Come non vedi omai
che tradisce tua fé l’infida Clori?
Tu che d’amor conosci
ogni oggetto, ogni forma, ogni sembiante,
nol vedesti l’altr’ier negl’occhi suoi
lusinghiero volante?
Allor che ad onta della fiamma ond’ardi
nel volto a Coridon fissò gli sguardi.
Ma che più l’empia mano!
Fiori non gli donò
pur lo vedesti tu,
pur il tuo cor lo sa,
che serpe vi mirò d’infedeltà!
«Anzi», e nel dir così, scotendo il crine,
vibrò le serpi e dibattendo l’ali
mi coprì con la destra il core oppresso.
Fe’ il volto orrendo, e in suon mesto e feroce
gonfiò le fauci e intumidì la voce:
«Anzi –disse– sovvenga
al tuo pensier tradito,
che l’altr’ier ne lo speco
ch’a Venere dicò l’antica gente,
Coridone entrò seco,
ove forse la rea
si mostrò nuova Dido al nuov’Enea».
Miri, miri l’Arcadia
trafitta omai dal scelerato petto
dell’empia traditrice,
qual già mirò Cartago,
de la regina sua l’aperte vene.
Quanto più si conviene a costei,
ch’a colei perder la vita.
Ingannata fu quella, e questa inganna,
traditrice costei, colei tradita,
quella regina fu, questa tiranna.
Ciò detto, ecco vegg’io
Clori venir ver me,
coperta il vago piè d’argentea spoglia,
era disciolto all’aure
il crin dorato, e all’aure
anco ondeggiava ricca
sidonea veste, e sotto il lato manco
ozioso pendea l’arco dal fianco.
Fatto ardente il mio core
dal consiglier gelato
fe’ ch’io sciolta ver lei l’irata lingua
con interrotto suono.
Espressi i miei dolori,
sua fede infida, et i traditi amori,
ella poscia che udì sorrise, e disse:
«No Aminta non è ver» e mi baciò.
Ahi ch’io mutai pensiero.
La gelosia fuggì,
quel riso m’invaghì,
quel bacio m’incantò,
e invaghito e incantato
io mi credei quel no.
Quel magico talento
dieder le stelle a femminil bellezza.
Vinto a’ piedi io le caddi
e dissi «amata Clori
ogni voler ti cedo
e se tradito m’hai perdon ti chiedo».
Al suon di queste voci innamorate,
e tenere, battendo l’ali d’argento,
venne il fanciul di Venere, e disse:
«Ahi che tormento e pena e che dolore
è pugnar con amor seguendo Amore!»